LAVORATORE REINTEGRATO SE NON SUPERA UN PERIODO DI PROVA NULLO.

Dopo la sentenza 128/2024 della Consulta non si può riconoscere la sola tutela indennitaria in caso di licenziamento.

Insussistenza del fatto contestato, insussistenza del fatto economico, insussistenza del patto di prova: la sanzione deve essere identica. Il recesso intimato per mancato superamento di un patto di prova affetto da «nullità genetica» – ovvero inesistente – configura, infatti, un’ipotesi di licenziamento privo di giustificazione per insussistenza del fatto materiale, poiché «manca l’esistenza del fatto posto a fondamento della ragione giustificatrice».

In tali casi, si impone l’applicazione della tutela reintegratoria “attenuata”, prevista dall’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015, come costituzionalmente interpretato dalla Consulta con la sentenza 128/2024. Sono le conclusioni cui è giunta la Corte di cassazione con la sentenza 24201/2025, riguardante il caso di una lavoratrice che ha chiesto l’accertamento della nullità del patto di prova per l’assoluta genericità dello stesso, con conseguente declaratoria di illegittimità del recesso intimatole per asserito mancato superamento della prova.

La Corte d’appello di Venezia, riformando la sentenza di primo grado, ha dichiarato nullo il patto di prova, poiché non descriveva «neppure in forma minimale le mansioni oggetto di prova» e, per l’effetto, condannato la società datrice di lavoro a reintegrare la dipendente, applicando altresì la tutela risarcitoria prevista per i casi di insussistenza del fatto materiale.

La decisione è stata, quindi, impugnata dalla società dinnanzi alla Cassazione, per avere la Corte di merito, tra l’altro, ritenuto erroneamente applicabile – «in conseguenza della rilevata nullità del patto di prova, in una fattispecie di contratto a tutele crescenti» – la tutela reintegratoria (e risarcitoria) prevista dall’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015, e non quella solo indennitaria di cui al comma 1 della medesima disposizione.

La Suprema corte chiarisce preliminarmente che il problema delle conseguenze sulla nullità genetica del patto di prova va risolto tenuto conto del «cambiamento giurisprudenziale sostanziale» rappresentato dalla sentenza della Consulta 128/2024, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma richiamata, nella parte in cui, ove dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, ometteva di applicare la sanzione della reintegrazione – già prevista per il licenziamento disciplinare – anche a quello per asserito (e indimostrato) giustificato motivo oggettivo.

Ciò premesso, la Cassazione richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in caso di nullità della clausola contenente il patto di prova, l’assunzione deve considerarsi a tempo indeterminato sin dall’origine, con la conseguenza che la cessazione unilaterale del rapporto, motivata dal mancato superamento della prova, integra un ordinario licenziamento «soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo».

Nel regime delle tutele crescenti tale recesso è stato sin qui assoggettato alla tutela meramente indennitaria prevista dall’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015, non potendosi ricondurre tale fattispecie ad alcuna delle ipotesi tipizzate di reintegrazione oggetto del comma 2. Oggi, tuttavia, tale impostazione deve essere necessariamente rivista alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza 128/2024, con la conseguenza – conclude la Corte di legittimità – che il recesso intimato per asserito mancato superamento di una prova inesistente, perché fondata su un patto affetto da “nullità genetica”, deve considerarsi a tutti gli effetti un licenziamento privo di giustificazione per insussistenza del fatto, come tale riconducibile alla previsione dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015, così come costituzionalmente interpretato.

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