La maggiore autonomia non porta in automatico alla negazione del diritto.
Pubblicato oggi da Il Sole 24 Ore il nuovo articolo di Angelo Zambelli.
Anche per i top manager, i direttori generali e i dirigenti “apicali”, le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale e irrinunciabile (cui è intrinsecamente collegato il diritto all’indennità sostitutiva per le ferie non godute). Lo ha affermato la Corte di cassazione, con ordinanza 32689/2025, in relazione a una fattispecie in cui la Corte d’appello di Brescia – sul presupposto dell’ampia autonomia nella gestione dei tempi di lavoro propria dei vertici aziendali – ha respinto la domanda di un dirigente di vedersi riconosciuta l’indennità sostitutiva delle ferie non godute.
In particolare, la Corte di merito, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto che, in assenza di prova di «condizioni imprevedibili ed eccezionali» ostative alla fruizione delle ferie, il dirigente non possa pretendere la monetizzazione del riposo annuale non goduto. E ciò valorizzando il più risalente orientamento giurisprudenziale, secondo cui la posizione apicale rivestita dal dirigente esclude «l’imputabilità datoriale della mancata fruizione delle ferie», salvo che «il dirigente dimostri la ricorrenza di imprevedibili e indifferibili esigenze aziendali».
La decisione è stata impugnata dal manager dinnanzi alla Suprema corte, per avere i giudici d’appello violato i principi costituzionali e sovranazionali in materia di ferie annuali retribuite, ponendosi in contrasto con il più recente orientamento giurisprudenziale che, a partire dal 2020 e in linea con le pronunce del giudice comunitario, ha progressivamente rafforzato il contenuto sostanziale del diritto alle ferie e alla corrispondente indennità sostitutiva al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
La Cassazione ha colto l’occasione per ricostruire in modo sistematico il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, a livello tanto nazionale quanto europeo, rilevando come l’articolo 7 della direttiva 2003/88/Ce, nonché l’articolo 10 del Dlgs 66/2003, configurino le ferie annuali retribuite come diritto fondamentale, inderogabile e strettamente funzionale alla tutela della salute e della sicurezza del lavoratore. E a tale diritto è intrinsecamente collegato, in caso di cessazione del rapporto, quello all’indennità sostitutiva delle ferie non godute.
Ciò premesso, la Corte di cassazione ha chiarito che la perdita del diritto alle ferie – e alla correlata indennità – non può operare in modo automatico, ma presuppone che il datore di lavoro dimostri di aver posto il lavoratore nelle condizioni concrete di fruirne, invitandolo, se necessario anche formalmente, a godere del periodo di riposo e informandolo in modo chiaro e tempestivo delle conseguenze derivanti dalla mancata fruizione.
Tali principi, ha sottolineato la Suprema corte, trovano applicazione anche nei confronti dei dirigenti, non potendo la loro posizione apicale e la maggiore autonomia organizzativa tradursi in una sostanziale elusione delle garanzie fondamentali poste a tutela della salute. Ne consegue che il tradizionale criterio dell’autodeterminazione delle ferie non è più idoneo, di per sé, a giustificare la perdita del diritto all’indennità sostitutiva, in assenza della prova datoriale dell’adempimento dei propri obblighi informativi, organizzativi e di vigilanza. Di qui, sembrerebbe potersi ritenere definitivamente superato il risalente (e più restrittivo) orientamento in materia di ferie annuali retribuite, ormai incompatibile con l’evoluzione del diritto sovranazionale.
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