LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI NELLE PICCOLE IMPRESE, L’ULTIMO INTERVENTO DELLA CONSULTA

Pubblicato da Modulo24 Contenzioso Lavoro l’approfondimento di Angelo Zambelli e Giulia Bonadonna

 

Ulteriore e decisivo intervento della Corte costituzionale sull’impianto normativo introdotto dal Jobs act, che si inserisce nel percorso giurisprudenziale di rivisitazione della disciplina dei licenziamenti illegittimi voluta dal legislatore del 2015, mettendone in discussione ratio e principi ispiratori

Era stata annunciata ed è arrivata. Con la storica sentenza di quindici giorni fa, la Corte costituzionale (1381795″>C. cost., 21 luglio 2025, n. 118) ha demolito per la quinta volta un altro (l’ennesimo) pilastro su cui poggiava il Jobs act, dichiarandone costituzionalmente illegittimo – questa volta – l’art. 9, comma 1, nella parte in cui, nel dettare i criteri di determinazione delle indennità risarcitorie in caso di licenziamenti illegittimi intimati da datori di lavoro c.d. “sottosoglia”, prevedeva che l’ammontare di tali indennità non potesse superare il limite massimo di sei mensilità. E ciò al fine di garantire, anche nell’ambito delle imprese minori, una tutela indennitaria congrua e adeguata a riparare il pregiudizio sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato, nonché dotata di «un’idonea forza […] dissuasiva» nei confronti del datore di lavoro autore dell’atto espulsivo viziato, caratteri – questi – grandemente compromessi dalla previsione di un’indennità «stretta in un divario così esiguo».

I licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese: il monito della Consulta e l’occasione mancata del referendum abrogativo

Prima di venire al merito della pronuncia in commento, giova ricostruire il quadro normativo attualmente vigente in materia di licenziamenti illegittimi nelle imprese che occupano alle proprie dipendenze fino a quindici lavoratori. Si tratta, del resto, di un tema «per niente residuale» [1] nel panorama del diritto del lavoro italiano, se solo si considera che la quasi totalità del tessuto imprenditoriale è costituito da micro e piccole imprese, mentre le realtà medie o grandi rappresentano una quota solo marginale [2].

La scelta di diversificare il regime del licenziamento illegittimo alla luce di un criterio dimensionale basato sul numero dei dipendenti risale alla L. n. 604/1966 [3] – «base di tutto l’edificio in cui albergano le tutele contro i licenziamenti viziati» [4] – seguita, poi, dallo Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970) che ha confermato l’adozione del riferimento numerico. Anche la Riforma Fornero e il Jobs act, intervenuti rispettivamente nel 2012 e nel 2015, hanno continuato a distinguere i campi di applicazione delle tutele in base alle dimensioni, maggiori o minori, delle singole realtà produttive.

Allo stato, per effetto del Jobs act, convivono due regimi di tutela «speciale» per i dipendenti delle piccole imprese, distinti a seconda della data di costituzione del rapporto di lavoro: ai rapporti instaurati prima del 7 marzo 2015 continua ad applicarsi la normativa di cui all’art. 8, L. n. 604/1966; per i rapporti costituiti a partire da tale data, invece, trova applicazione l’apparato sanzionatorio delineato dall’art. 9, D.lgs. n. 23/2015, destinato – per mere ragioni demografiche – ad affermarsi come disciplina prevalente.

Ebbene, se la previsione di una duplicità di regime in relazione alla data di assunzione del lavoratore licenziato è stata ritenuta ragionevole dalla Corte costituzionale in considerazione del fatto che «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» [5], ben più problematica è apparsa, di recente, l’opzione legislativa di ancorare il regime sanzionatorio al dato dimensionale dell’impresa [6].

La questione è esplosa, con un ritardo di oltre cinquant’anni, con la sentenza n. 183 del 2022, con cui la Consulta era stata chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Roma con riferimento all’art. 9, comma 1, del Jobs act, sotto il duplice profilo della legittimità del dato occupazionale quale parametro per differenziare la disciplina di tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati e della congruità dell’ammontare dell’indennità risarcitoria ivi prevista.

Secondo il Tribunale capitolino, infatti, la norma censurata era in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza e di tutela del lavoro, in primis per la determinazione del suo campo di applicazione ad opera di un requisito (quello occupazionale) «esterno al rapporto di lavoro» [7], e in secundis per la fissazione dell’indennità entro limiti eccessivamente stringenti (3-6 mensilità) per l’assolvimento delle funzioni compensativa e dissuasiva in caso di licenziamento illegittimo.

La Corte costituzionale, investita della questione, aveva riconosciuto la sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente, da un lato, giudicando anacronistico il criterio incentrato sul solo numero degli occupati, in quanto inadeguato a riflettere le trasformazioni di un contesto economico in cui anche un’organizzazione con pochi dipendenti può disporre di ingenti capitali e generare consistenti volumi d’affari; dall’altro, aveva ritenuto che l’esiguo divario tra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità vanificasse l’esigenza di adeguare l’importo dell’indennità «alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza» [8].

Nonostante i profili di disarmonia evidenziati nella parte motiva della pronuncia, il Giudice delle leggi aveva respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, seguendo, quindi, la «strada della sentenza di incostituzionalità accertata, ma non dichiarata» [9] e demandando, piuttosto, al legislatore il compito di intervenire direttamente sull’impianto legislativo [10], con l’avvertimento che l’ulteriore protrarsi della sua inerzia sarebbe stato intollerabile.

Il monito della Corte costituzionale – più vicino a una vera e propria “messa in mora” del Parlamento – è rimasto, ad oggi, inascoltato: nessun intervento correttivo, infatti, ha fatto seguito alla sentenza n. 183 del 2022. E pure il referendum abrogativo promosso dalla CGIL, e svoltosi l’8 e il 9 giugno scorsi – che ben avrebbe potuto rappresentare un’occasione di svolta – non è riuscito a concretare una riforma dal basso della materia dei licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese per il mancato raggiungimento del quorum [11].

La sentenza n. 118 del 2025: dalla moral suasion alla declaratoria di incostituzionalità

È in questo contesto di inattività parlamentare, accompagnata dal fallimento della consultazione referendaria, che si inserisce la sentenza n. 118 del 21 luglio 2025, con cui la Consulta ha accolto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, D.lgs. n. 23/2015, sollevata, questa volta, dal Tribunale di Livorno nell’ambito di un giudizio relativo all’impugnazione di un licenziamento intimato a una lavoratrice assunta nell’aprile 2015 da una società con alle proprie dipendenze meno di quindici lavoratori.

In particolare, il giudice rimettente aveva ritenuto che la disciplina di cui al citato art. 9, comma 1, fosse discriminatoria e irragionevole, in quanto la previsione per i datori di minori dimensioni di una tutela indennitaria dimezzata rispetto a quella ordinaria, «costretta in una forbice ridottissima, da tre a sei mensilità», non solo determinava un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai dipendenti di imprese di maggiori dimensioni [12], ma disegnava altresì una «tutela standardizzata» che escludeva ogni «personalizzazione del risarcimento» e che, poiché troppo esigua, risultava inidonea a «garantirne l’adeguatezza e congruità oltre che il ruolo deterrente».

L’iter logico-argomentativo seguito dalla Corte costituzionale ha preso le mosse dalla considerazione per cui, pur rientrando nella discrezionalità del legislatore la scelta della tipologia di tutela – monetaria anziché reintegratoria – applicabile, questa deve essere improntata, in ogni caso, ai canoni di effettività, adeguatezza e ragionevolezza.

E ciò in quanto il licenziamento illegittimo, ancorché «idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito».

Ciò premesso – ha proseguito la Corte, riprendendo i passaggi salienti della sentenza n.183 del 2022 – è proprio l’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità di cui alla norma censurata a vanificare «l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza». Il tetto massimo «insuperabile» di sei mensilità si traduceva, infatti, in una sorta di «liquidazione legale forfetizzata e standardizzata», incapace di riflettere la complessità della vicenda concreta e le molteplici variabili direttamente incidenti sulla posizione del lavoratore. Ne derivava, quindi, secondo la Consulta, un’indennità che non solo risultava inadeguata a compensare il pregiudizio subìto, ma anche insufficiente a garantire il rispetto della dignità del lavoratore, nonché a configurare il licenziamento come extrema ratio.

Diversamente, la Corte non ha ritenuto costituzionalmente illegittima la previsione del dimezzamento degli importi delle indennità previste nel caso di licenziamenti nelle «imprese sopra soglia»: pur costituendo una disciplina differenziata, essa – secondo la Consulta – appare, infatti, ragionevole, in quanto non impedisce al giudice di tenere conto, all’interno di una «forbice sufficientemente ampia e flessibile» (minimo tre, massimo diciotto mensilità), delle specificità di ogni singola vicenda.

Di qui, ferma la disciplina del dimezzamento, la declaratoria di illegittimità dell’art. 9, comma 1, D.lgs. n. 23/2015, limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità», con la conseguenza che è definitamente da escludersi che la tutela risarcitoria possa essere compressa entro parametri rigidi e indifferenziati, tenuto conto delle funzioni che le sono proprie, tanto più in un contesto segnato da una profonda eterogeneità delle situazioni concrete.

Conclusioni

La pronuncia in commento altro non è che un ulteriore e decisivo intervento della Corte costituzionale sull’impianto normativo introdotto dal Jobs act, che va quindi a inserirsi in quel nutrito percorso giurisprudenziale che ha progressivamente rivisitato la disciplina dei licenziamenti illegittimi voluta dal legislatore del 2015, mettendone in discussione ratio e principi ispiratori.

Il «valore complessivo e anche storico» [13] dell’intervento della Consulta è evidente, se si considera il significativo rafforzamento della tutela risarcitoria per i lavoratori delle imprese c.d. “sottosoglia” che consegue come effetto immediato dalla caducazione del tetto massimo delle sei mensilità. Un cambiamento, questo, destinato non solo a incidere sul piano giuridico, ma anche culturale, disinnescando quella leggerezza, per così dire, con cui taluni datori di lavoro si sono finora approcciati al licenziamento nelle piccole aziende, confidando nell’esiguità dell’onere economico connesso a un’eventuale declaratoria di illegittimità: un approccio maggiormente professionale e meno “garibaldino” pagherà d’ora in poi in termini di minor contenzioso e relativi risarcimenti.

Resta aperta, tuttavia, la questione della disciplina applicabile ai lavoratori delle piccole imprese assunti ante 7 marzo 2015, per i quali continua a operare il sistema sanzionatorio di cui all’art. 8, L. n. 604/1966, di fatto analogo a quello ora dichiarato incostituzionale, ma che la Corte ha omesso di menzionare, probabilmente perché non richiesta in parte qua: la sorte, in verità, sembrerebbe ormai segnata, questione di tempo e di occasione. Più complicata appare la soluzione del tema, più ampio e strutturale, di quali criteri, oltre a quello occupazionale, possano essere parametri discretivi nella disciplina dei licenziamenti: in effetti, il numero di dipendenti risulta ormai sempre più inadeguato a fotografare da solo la forza economica del datore di lavoro «e quindi la sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi».

Spetterebbe ora al legislatore – cui la Corte rinnova, in chiusura, l’invito a intervenire – procedere a una revisione organica della materia, così da superare un impianto normativo frammentato e non sempre coerente, restituendo al sistema delle tutele contro i licenziamenti illegittimi quella razionalità, quel coordinamento sistemico e quella equità, spesso declinata in congruità, che, ancor più oggi, appaiono incompiuti. Ma la riluttanza sin qui mostrata non fa ben sperare…

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[1] A. Giuliani, La disciplina sui licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese tra lex minus quam perfecta e prospettive di tutela reale universale, in Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, Fascicolo Straordinario – 2024.

[2] Secondo i più recenti dati resi disponibili dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) nell’Annuario 2023, su un campione di studio circa 280mila imprese, rappresentative di un universo di 1.021.618 unità, più di tre quarti (805mila unità, pari al 78,9% del totale) sono microimprese (con 3-9 addetti in organico), 189mila (18,5% del totale) sono imprese di piccole dimensioni (10-49 addetti), mentre le medie (50-249 addetti) e le grandi imprese (con 250 addetti e oltre) rappresentano rispettivamente il 2,2% (22.861 unità in valori assoluti) e lo 0,4% (3.969 unità, di cui 1.622 con 500 addetti e oltre).

[3] Nella sua versione originaria, l’art. 8, L. n. 604/1966, riconosceva al lavoratore illegittimamente licenziato il diritto a essere riassunto entro tre giorni oppure, in alternativa, a ottenere «un’indennità da un minimo di cinque ad un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione […]». Tale indennità risarcitorie veniva, tuttavia, dimezzata per le imprese che occupavano meno di sessanta dipendenti. In ogni caso, la L. n. 604/1966 non trovava applicazione nei confronti delle imprese con meno di trentacinque dipendenti, per le quali continuava a operare il recesso ad nutum ex art. 2118 c.c.

[4] V. Poso, Il referendum sui licenziamenti nelle piccole imprese. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Orsola Razzolini, Lorenzo Zoppoli e Corrado Caruso, in Giustizia Insieme.

[5] Così, 981182″>Corte cost. n. 194 dell’8 novembre 2018. Nello stesso senso, 1153520″>Corte cost. nn. 25 del 2012, 273 del 2011, 94 del 2009, secondo cui «[s]petta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme […]».

[6] In un primo tempo, con diverse pronunce successive all’emanazione della L. n. 604/1966 e dello Statuto dei lavoratori, la Corte costituzionale aveva fermamente difeso la previsione di un regime di tutela differenziato in relazione al numero dei dipendenti, valorizzando la «natura fiduciaria del rapporto di lavoro nell’ambito delle descritte realtà organizzative», l’«opportunità di non gravarle di oneri eccessivi e, infine, [de]lle tensioni che l’esecuzione di un ordine di reintegrazione potrebbe ingenerare» (Così, 1150229″>Corte cost. nn. 2 del 1986, 189 del 1975, 152 del 1975).

[7] Trib. Roma, 24 febbraio 2021, in Boll. Adapt, n. 9/2021.

[8] 1189474″>Corte cost. n. 183 del 22 luglio 2022.

[9] A. Morrone, The time is out of join. Ordinare il tempo nelle sentenze della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n. 1/2025, pagg. 167-198.

[10] Non spetta, infatti, alla Corte «definire la stessa soglia massima dell’indennità e scegliere i criteri più appropriati ipotizzabili tra i molteplici sui quali fondare la diversità di trattamento, che non si appiattiscano sui requisito del numero degli occupati […]» Così, C. Zoli, La Corte costituzionale prosegue la “controriforma”: i licenziamenti nelle piccole imprese, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 4/2022, pagg. 1135 e ss.

[11] Tra i quesiti referendari vi era, infatti, la proposta di abrogare il limite massimo di sei mensilità previsto dall’art. 8, L. n. 604/1966, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, oltre alla richiesta di eliminare l’intero impianto del D.lgs. n. 23/2015.

[12] Destinatari, a norma dell’art. 18, St. lav., della tutela reintegratoria insieme a quella indennitaria, ovvero della sola tutela indennitaria fino a trentasei mensilità.

[13] S. Centofanti, Verso una maggiore tutela per i licenziamenti nelle piccole imprese, in LavoroDirittiEuropa –