Pubblicato da Il Sole 24 Ore il nuovo articolo di Angelo Zambelli.
Quinto intervento demolitivo della Consulta nei confronti del Jobs act: il “tetto massimo insuperabile” di sei mensilità previsto dall’articolo 9, comma 1, del decreto legislativo 23/2015 nel caso di licenziamenti illegittimi intimati da datori di lavoro che occupano fino a quindici dipendenti è costituzionalmente illegittimo.
Così la Corte costituzionale, con sentenza 118/2025, in parziale accoglimento della questione sollevata dal Tribunale di Livorno, è tornata a pronunciarsi per l’ottava volta sul Jobs act, riaprendo il cantiere – mai del tutto chiuso – delle tutele contro il licenziamento illegittimo.
In particolare, il giudice rimettente – in relazione al giudizio di impugnazione di un recesso intimato a una lavoratrice assunta nell’aprile 2015 da una società con “alle proprie dipendenze al massimo quattordici lavoratori” – aveva ritenuto che la disciplina contenuta nell’articolo 9, comma 1, che per i datori di minori dimensioni prevedeva una tutela indennitaria dimezzata rispetto a quella ordinaria, «costretta in una forbice ridottissima, da tre a sei mensilità», fosse in contrasto, tra gli altri, con i fondamentali principi costituzionali di uguaglianza e di ragionevolezza.
Secondo il Tribunale, tale previsione non solo determinava un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai lavoratori dipendenti da imprese con più di quindici dipendenti – destinatari della tutela reintegratoria insieme a quella indennitaria, ovvero della sola tutela indennitaria fino a trentasei mensilità – ma disegnava anche una «tutela standardizzata», che escludeva ogni «personalizzazione del risarcimento» e, poiché troppo esigua, era inidonea a «garantirne l’adeguatezza e congruità oltre che il ruolo deterrente».
A rafforzare l’urgenza dell’intervento richiesto concorrono i più recenti dati Istat (annuario 2023), dai quali emerge che tale disciplina riguarda la «quasi totalità delle imprese nazionali» (805mila unità, pari al 78,9% del totale risultano microimprese), rendendo la questione ormai «francamente non ulteriormente procrastinabile».
Già con la sentenza 183/2022 la Consulta ha ravvisato nell’articolo 9, comma 1, la «sussistenza di un vulnus» ai richiamati principi costituzionali, mettendo in mora il potere legislativo al riguardo. In questa ultima decisione ha tuttavia ritenuto non fondata la questione relativa al dimezzamento, nelle aziende piccole, degli importi delle indennità previste per le imprese con oltre quindici dipendenti: pur costituendo una disciplina differenziata, secondo la Corte appare ragionevole, in quanto non impedisce al giudice di tener conto, all’interno di una forbice «sufficientemente ampia e flessibile» (3-18 mensilità, oppure 1-6 mesi per i vizi formali), delle specificità di ogni singola vicenda. Quanto, invece, alla previsione del tetto massimo di sei mensilità, la Consulta ha osservato che un siffatto limite determina un’indennità «stretta in un divario così esiguo» da risultare una sorta di forfait automatico, incapace di garantire «un’efficace deterrenza» e un ristoro effettivo e proporzionato al danno subìto dal lavoratore, nonché di tenere conto della peculiarità del caso concreto. Di qui, ferma la disciplina del dimezzamento, la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 1, del Dlgs 23/2015, limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».
La parola, dunque, potrebbe ora tornare al legislatore.