Questa forma di protesta non richiede forme vincolate di proclamazione se esercitata in modo collettivo nell’ambito del lavoro privato
Pubblicato su il Sole 24 Ore il nuovo articolo di Angelo Zambelli
È nullo il licenziamento intimato a causa della partecipazione del dipendente a uno sciopero, anche quando questo non sia stato formalmente proclamato da un’organizzazione sindacale e a prescindere dalla dimensione aziendale, purché attuato in forma collettiva, per la tutela di interessi riferibili alla generalità dei lavoratori e in conformità ai cosiddetti limiti esterni stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria.
Lo ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza 11347/2025, intervenuta su un caso di licenziamento di un lavoratore per adesione a uno sciopero non formalmente indetto da alcuna sigla sindacale, che ha coinvolto tre dei cinque dipendenti che componevano l’organico aziendale.
La Corte di appello, nel confermare la nullità del recesso datoriale, ha evidenziato che lo sciopero, pur se spontaneo, integra esercizio del diritto previsto dall’articolo 40 della Costituzione e gode della tutela dell’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori, il quale vieta qualsiasi atto discriminatorio determinato dall’esercizio di diritti sindacali, incluso quello di sciopero.
La Suprema corte, esclusa nel caso concreto la ricorrenza di un servizio pubblico essenziale con applicazione della relativa disciplina, ha confermato tale impostazione, ribadendo che il diritto di sciopero, ove esercitato in modo collettivo e nell’ambito del lavoro privato, non è soggetto a forme vincolate di proclamazione.
In tale prospettiva, la Cassazione riafferma che, ai fini della liceità dello sciopero, ciò che rileva è la comunanza di scopo tra i lavoratori coinvolti e la finalità di tutela di interessi collettivi, a prescindere dalla forma o dall’origine dell’azione di autotutela. L’assenza, quindi, di proclamazione sindacale, di preavviso o di attivazione di eventuali procedure conciliative non può determinare l’illiceità dell’astensione né legittima il recesso datoriale.
Al contrario, ricorda la Suprema corte, l’esercizio del diritto di sciopero può risultare illegittimo qualora appaia «idoneo a pregiudicare irreparabilmente non la produzione, ma la potenziale produttività dell’azienda, cioè la possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica, ovvero comporti la distruzione o una duratura inutilizzabilità degli impianti, con pericolo per l’impresa come organizzazione istituzionale, non come mera organizzazione gestionale, con compromissione dell’interesse generale alla preservazione dei livelli di occupazione». In tali casi, il giudice di merito è chiamato a svolgere una valutazione puntuale e caso per caso, che tenga conto delle specifiche modalità di svolgimento e dei concreti pregiudizi eventualmente arrecati a beni costituzionalmente protetti, quali il diritto alla vita, all’incolumità delle persone e alla stabilità dell’impresa.
Infine la Corte chiarisce che, trattandosi di licenziamento nullo per motivo ritorsivo o connesso all’esercizio di diritti fondamentali, trova applicazione la tutela reintegratoria prevista dall’articolo 2 del Dlgs 23/2015.
In conclusione, la sentenza consolida l’indirizzo giurisprudenziale che dà una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori ed estende la portata protettiva dello stesso a tutte le condotte collettive riconducibili alla nozione sostanziale di sciopero, con conseguente nullità del licenziamento e obbligo di reintegrazione del lavoratore.
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