La Cassazione rinvia alla Corte di merito la decisione presa prima degli interventi della Consulta
Pubblicato oggi da Il Sole 24 Ore il nuovo articolo di Angelo Zambelli
L’ordinanza 6221/2025 della Corte di cassazione sembra fornire una risposta indiretta alla domanda sull’opportunità del referendum abrogativo del Jobs act previsto nelle giornate dell’8 e 9 giugno. Con tale pronuncia, infatti, la Corte ha disposto la reintegrazione, anziché confermare la tutela indennitaria riconosciuta dalla Corte d’appello, a una lavoratrice a cui si applicava il Jobs act e licenziata per asserita, ma indimostrata, «riorganizzazione aziendale finalizzata ad ottenere una maggiore efficienza ed economicità di gestione».
La Corte di merito, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato alla dipendente, ritenendo generiche le allegazioni datoriali «in ordine alle concrete modalità di riorganizzazione e riallocazione dei fattori produttivi» e, per l’effetto, in applicazione dell’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015, aveva condannato la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
La decisione è stata impugnata dalla lavoratrice dinnanzi alla Cassazione, da un lato, per avere la Corte di merito errato nel non ravvisare il carattere ritorsivo del recesso datoriale e, dall’altro, sotto il profilo della corretta quantificazione dell’indennità riconosciutale «a fronte di un licenziamento intimato per motivi che nulla hanno avuto a che fare con vicende attinenti in modo soggettivo od oggettivo» al suo ruolo.
La Suprema corte, con riguardo alla prima delle censure, chiarisce che i giudici di merito, in assenza «di ulteriori fatti, anche indizianti», hanno correttamente escluso la ricorrenza di un motivo ritorsivo del licenziamento, non potendo l’accertata ingiustificatezza del recesso da sola far presumere il motivo illecito. Ciò premesso, e con riguardo al regime sanzionatorio applicato ratione temporis, la lavoratrice – prosegue la Cassazione – può ora “giovarsi” della pronuncia 128/2024, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015, nella parte in cui non prevedeva che la tutela reintegratoria si applicasse anche nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui fosse direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro. E ciò in quanto, secondo la Consulta, a differenza di quanto previsto per la parallela ipotesi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, era proprio «la radicale irrilevanza…dell’insussistenza del fatto materiale nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo» a determinare «un difetto di sistematicità», differenziando, ingiustificatamente, «situazioni del tutto identiche, o almeno omogenee».
Considerato che, in forza dell’articolo 136 della Costituzione, la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge comporta che quest’ultima cessi di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, la Cassazione ha rinviato la sentenza impugnata alla Corte di merito, affinché applichi l’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015 «come risultante a seguito della pronuncia di incostituzionalità n. 128 del 2024».
Risulta dunque confermata (se mai ce ne fosse stato bisogno) l’estensione del campo di applicazione della sanzione reintegratoria rispetto alla tutela indennitaria, ormai confinata a ipotesi marginali: ecco perché oggi, alla luce dei numerosi interventi della Consulta (ben tre solo nel 2024), il referendum abrogativo del Jobs act appare rispondere più a esigenze di “bandiera” che a una reale esigenza di tutela dei lavoratori.