Datore di lavoro responsabile semplicemente per aver creato e tollerato un ambiente stressogeno.
Pubblicato oggi da Il Sole 24 Ore il nuovo articolo di Angelo Zambelli.
Anche in assenza di una condotta qualificabile come mobbing a causa della mancanza di un intento persecutorio unificante i singoli comportamenti lesivi, può comunque aversi una violazione dell’articolo 2087 del Codice civile qualora il datore di lavoro «consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno». Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con ordinanza 31367/2025, in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice aveva denunciato comportamenti vessatori e mobbizzanti, lamentando conseguenze sulla propria salute psicofisica e chiedendo, conseguentemente, il risarcimento del danno.
La Corte d’appello di Ancona, riformando la pronuncia di primo grado, ha respinto la domanda promossa dalla dipendente, escludendo – sulla base degli elementi istruttori acquisiti – la configurabilità «di un comportamento di prevaricazione, intimidatorio e vessatorio tenuto in maniera continua e teso ad emarginare e isolare la lavoratrice». Secondo la Corte di merito, la condotta datoriale, seppur spesso contraria alle regole di buona educazione, era sempre stata «preordinata al soddisfacimento di necessità ed esigenze di servizio e oggettivamente giustificata da disservizi attribuiti alla lavoratrice stessa», né le patologie psicosomatiche lamentate apparivano causalmente collegate a precise condotte datoriali di tipo mobbizzante.
La decisione è stata impugnata dalla lavoratrice dinnanzi alla Suprema corte, per avere la Corte di merito assunto una decisione manifestamente contraria al consolidato orientamento di legittimità in materia di mobbing. In particolare, secondo la ricorrente, la Corte d’appello di Ancona ha trascurato che anche un datore di lavoro «irrispettoso e che viola le regole poste a tutela dei lavoratori» può adottare comportamenti vessatori, e non ha adeguatamente considerato i certificati medici prodotti in giudizio dalla lavoratrice, dai quali emergevano specifiche patologie ricondotte a «vessazioni in ambiente di lavoro».
La Corte di cassazione ha innanzitutto confermato il proprio consolidato orientamento, secondo cui l’articolo 2087 del Codice civile tutela comunque e in ogni caso l’integrità psicofisica dei lavoratori, anche a prescindere dalla concreta individuazione di una condotta di mobbing. Ne consegue che per configurarsi responsabilità datoriale, in base a tale articolo, non è necessario un intento persecutorio, ma è sufficiente, da un lato, che i comportamenti pregiudizievoli, singolarmente o nel loro insieme considerati, contribuiscano a creare un ambiente di lavoro stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori e, dall’altro, che il datore di lavoro tolleri, anche colposamente, il mantenersi di tale condizione. La stessa tutela – ha proseguito la Suprema corte – viene accordata anche nei confronti delle forme attenuate di mobbing, come lo straining, configurabile in presenza di un atto isolato, senza che sia necessaria la continuità delle vessazioni, e sempre riconducibile all’articolo 2087 del Codice civile, con diritto al risarcimento del danno al lavoratore leso anche in assenza dei tratti caratterizzanti il mobbing.
Ebbene, la Suprema corte ha rilevato come la sentenza impugnata non si sia conformata ai principi ormai granitici in materia di mobbing e straining. Anche in assenza di un intento persecutorio unificante le singole condotte, infatti, le medesime avrebbero dovuto essere valutate alla luce della violazione dell’articolo 2087 e ciò in quanto lesive di «interessi protetti del lavoratore al più alto livello dell’ordinamento».



