INESISTENTE IL LICENZIAMENTO INTIMATO DOPO LA CESSIONE D’AZIENDA

Per la Cassazione il recesso operato da un soggetto che non riveste la qualità di datore di lavoro non è illegittimo ma giuridicamente inesistente.

Pubblicato da Il Sole 24 Ore il nuovo articolo di Angelo Zambelli

È giuridicamente insussistente il licenziamento proveniente dall’ex datore di lavoro cedente, intimato successivamente al trasferimento del rapporto di lavoro secondo quanto stabilito dall’articolo 2112 del Codice civile.

È quanto ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza 31551 del 9 novembre 2024, in merito alla legittimità del licenziamento di una lavoratrice comunicato il 30 luglio 2019 – dopo che era stata dichiarata la sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato ab origine dal 2013 per nullità del termine apposto al contratto di lavoro – dalla datrice di lavoro che, nel gennaio 2015, aveva nel frattempo trasferito ad altra società parte del compendio aziendale, perimetrando il ramo ceduto mediante accordi sindacali che escludevano parte del personale dipendente.

La Corte, sottolineando come il rapporto di lavoro fosse transitato in capo alla cessionaria (in virtù della forza imperativa dell’articolo 2112), ribadisce il principio consolidato in giurisprudenza secondo cui il licenziamento intimato da un soggetto che non riveste la qualità di datore di lavoro (ossia la società cedente) deve considerarsi non illegittimo, bensì giuridicamente inesistente. Mentre la Corte territoriale aveva dichiarato l’illegittimità del recesso datoriale per manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la Cassazione esclude la possibilità di applicare nel caso di specie la disciplina dei licenziamenti, «trattandosi di un atto proveniente da soggetto estraneo al rapporto lavorativo, con conseguente impossibilità di ratifica da parte del cessionario».

In conformità alla decisione in appello, i giudici di legittimità ritengono che fossero inopponibili alla dipendente gli accordi di cessione ai sensi dell’articolo 47, comma 4 bis, della legge 428/1990, che avevano previsto l’esclusione di alcuni lavoratori dal trasferimento ex articolo 2112, e ciò in ossequio all’interpretazione eurounitaria dell’articolo 47 che, anche nelle aziende in stato di crisi, garantisce e impone la continuità dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento.

Gli ulteriori motivi di ricorso, sui requisiti dimensionali aziendali, sulla qualificazione del licenziamento e sulla quantificazione della retribuzione globale di fatto, proposti con tre diversi ricorsi dalla cedente, dalla cessionaria e infine dalla lavoratrice, vengono ritenuti assorbiti poiché, trattandosi di recesso insussistente («tamquam non esset»), si configura il diritto al risarcimento del danno secondo i principi di diritto comune.

Sono state, poi, dichiarate inammissibili le rimostranze della società cessionaria in merito al regime decadenziale di cui all’articolo 32, comma 4, lettera c) della legge 183/2010 in relazione ai trasferimenti d’azienda, «perché non vi è alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro».

La Corte di legittimità, quindi, cassa la sentenza di secondo grado, rinviando la decisione alla Corte di appello di Roma per accertare il quantum risarcitorio sulla base delle predette conclusioni.

L’ordinanza in commento rappresenta senz’altro un punto fermo nell’interpretazione delle norme relative ai trasferimenti d’azienda e alla gestione dei licenziamenti, ponendo l’accento sull’armonizzazione dell’ordinamento nazionale con i principi del diritto dell’Unione europea e gli approdi giurisprudenziali della Corte di giustizia.

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