Un nuovo articolo di Angelo Zambelli e Giulia Bonadonna disponibile nel Modulo 24 Contenzioso Lavoro e su Norme e Tributi Plus Lavoro de Il Sole 24 Ore
Di seguito è riportato un estratto dell’articolo:
La Corte costituzionale, con sentenze 128 e 129 del 2024, pur pronunciandosi su questioni distinte (il licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’una, e quello disciplinare l’altra), finisce, in egual misura, col ribaltare una volta di più la ratio della disciplina introdotta dal Jobs act.
Con il recente duplice intervento (sentenze n. 128 e 129 del 2024), la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi – (ancora una volta) con animus demolitorio – sul Jobs act, (i) dichiarandone costituzionalmente illegittimo, con la prima delle due sentenze, l’art. 3, comma 2, nella parte in cui, ove dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, ometteva di applicare la sanzione della reintegrazione – già prevista per il licenziamento disciplinare – anche a quello per ragioni economiche, e (ii) stabilendo, con la seconda, il diritto del lavoratore a essere reintegrato nel posto di lavoro nel caso in cui il fatto all’origine del licenziamento, pur disciplinarmente rilevante, sia punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione meramente conservativa.
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In particolare, la Consulta – collocata la fattispecie in commento nel solco “della […] prescrizione della natura necessariamente causale del recesso datoriale” – ha chiarito anzitutto che tale prescrizione “cardine mai smentita” esige che – seppure la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non sia sindacabile nel merito – il fatto materiale allegato dal datore di lavoro sia quantomeno “sussistente”, dovendosi altrimenti ritenere violato il principio di necessaria causalità. Ciò premesso – ha proseguito la Corte – è proprio “la radicale irrilevanza […] dell’insussistenza del fatto materiale nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo” – a differenza di quanto accade nella parallela ipotesi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo – a determinare “un difetto di sistematicità”. E ciò in quanto il fatto, vuoi se contestato al lavoratore come “condotta inadempiente che in realtà non c’è stata”, vuoi se indicato “come ragione di impresa che in realtà non sussiste”, è, in entrambi i casi, egualmente insussistente. Di qui la declaratoria di illegittimità dell’art. 3, comma 2, D.lgs. n. 23/2015, che – ancorando, di fatto, la reintegra alla qualificazione giuridica del licenziamento utilizzata dal datore di lavoro, cui è concesso di sfuggire al rischio di reintegrazione semplicemente costruendo un motivo di recesso ad hoc basato su un fatto materiale inesistente – differenzia, ingiustificatamente, “situazioni del tutto identiche, o almeno omogenee”. In definitiva la Corte, valorizzando i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, ha escluso che possa esserci – nel caso in cui si accerti che il fatto (oggettivo o soggettivo) non esiste – “una ragione che giustifichi una regola differenziata” per il licenziamento economico e per quello disciplinare, dovendo corrispondere “a una pari gravità del vizio […] un eguale trattamento sanzionatorio”.
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Anche la seconda delle due pronunce in commento è figlia, in un certo senso, del passaggio, dapprima, dal regime originario di cui all’art. 18, St. Lav. a quello novellato dalla riforma Fornero e, poi, da questi alla disciplina dei licenziamenti illegittimi introdotta dal Jobs act. E così, anche rispetto alla seconda delle due pronunce in commento, la Consulta ha preliminarmente ripercorso, per tappe, l’evoluzione del quadro normativo di riferimento, per poi approdare a una soluzione che incide, anch’essa, sulle scelte politiche operate nel 2015. Lo Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla L. n. 92/2012, prevede all’art. 18, comma 4, l’applicazione della tutela reintegratoria non soltanto alle ipotesi in cui “non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato” ma anche a quelle in cui gli anzidetti estremi non ricorrono “perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” [7)
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Conclusioni
Le due sentenze in commento, pur pronunciandosi su questioni distinte (il licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’una, e quello disciplinare l’altra), finiscono, entrambe e in egual misura, col ribaltare una volta di più la ratio della disciplina introdotta dal Jobs act. Se, infatti, l’intento manifesto del legislatore del 2015 era quello di circoscrivere l’applicazione della tutela reintegratoria a ipotesi marginali, seppur gravi, individuando nel risarcimento del danno il rimedio ordinario a fronte del recesso datoriale, gli interventi correttivi della Corte costituzionale – e non solo quelli in commento – hanno segnato un “revival” della reintegra che, per loro tramite, e nonostante i depotenziamenti apportati dalle riforme, sembra mantenere “il suo valore di archetipo iniziale” [12] nella disciplina dei licenziamenti. Sicché, venendo eroso sempre più il “core” del Jobs act, il progressivo assottigliamento delle differenze tra questi e l’art. 18, St. Lav., sino al loro annullamento, è dietro l’angolo: verrebbe da dire, con il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Le versione integrale dell’articolo è disponibile qui: https://ntpluslavoro.ilsole24ore.com/art/jobs-act-consulta-ribalta-disciplina-licenziamenti-economico-e-disciplinare-AFZvUr7C