Va riconosciuta la reintegrazione al lavoratore che ha rifiutato la trasformazione in part time
Il nuovo articolo di Angelo Zambelli pubblicato nelle pagine Norme & Tributi de Il Sole 24 Ore
Se il licenziamento, seppur «ammantato da altre ragioni come il g.m.o.», viene intimato a seguito del rifiuto del lavoratore di accettare la proposta di trasformazione del proprio rapporto di lavoro da part time a full time (o viceversa), il recesso è da ritenersi a tutti gli effetti ritorsivo e, come tale, rientrante tra i casi di nullità che conducono alla tutela reintegratoria. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con l’ordinanza 18547/2024, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore – nei cui confronti era stato avviato un procedimento disciplinare per essersi opposto alla trasformazione del rapporto in uno a tempo parziale – era stato, poi, licenziato per giustificato motivo oggettivo per asserita crisi aziendale.
La Corte di appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva annullato il licenziamento, con ordine di reintegrazione del lavoratore, ritenendo insussistente, alla luce della documentazione esaminata, il «costante andamento negativo del reparto di macelleria» cui il lavoratore era addetto. Piuttosto, prosegue la Corte, proprio l’insussistenza del giustificato motivo addotto rivelava «l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento in oggetto», che aveva fatto seguito, temporalmente, al rifiuto del lavoratore di trasformare in part time il suo rapporto di lavoro e alla contestazione disciplinare motivata da tale rifiuto. La decisione è stata impugnata dalla società avanti la Cassazione, per avere la Corte di merito accordato altresì la tutela reintegratoria piena, applicabile, secondo la ricorrente, «solo quando il licenziamento sia discriminatorio o negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time».
La Corte di cassazione chiarisce, preliminarmente, che la Corte di merito non ha sanzionato con la nullità un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time, bensì un licenziamento formalmente per giustificato motivo oggettivo motivato «da inesistenti e strumentali ragioni riferite ad una crisi aziendale, cui era sotteso l’intento di reagire al legittimo rifiuto del part time». La differenza tra le due fattispecie, prosegue la Suprema corte, è chiara: mentre il licenziamento motivato dal rifiuto del dipendente della trasformazione del rapporto di lavoro va ritenuto ingiustificato alla luce dell’articolo 8, comma 1, del Dlgs 81/2015, quello intimato a seguito di tale rifiuto e (mal) giustificato, come in questo caso, da una crisi aziendale insussistente è da considerarsi ritorsivo in quanto, proprio nel tentativo di eludere l’articolo 8, nasconde, dietro un’asserita crisi, «una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta».
Ciò premesso, conclude la Cassazione, al licenziamento ritorsivo, la cui nullità non è oggetto di esplicita previsione di legge, si applica la tutela reintegratoria prevista dall’articolo 2, comma 1, del Dlgs 23/2015, avendo la Corte costituzionale, con la sentenza 22/2024, definitivamente escluso, quanto al regime del licenziamento nullo, la distinzione tra «nullità espresse e nullità che tali non sono», fugando «ogni residuo dubbio in proposito».