Va applicato l’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori per insussistenza del fatto e non il comma 6 per una mera violazione formale.
Pubblicato oggi da Il Sole 24 Ore il nuovo articolo di Angelo Zambelli.
Nelle imprese con più di 15 dipendenti, il vizio radicale per inesistenza della motivazione del licenziamento non integra una mera violazione formale ma, «poiché impedisce che si possa pervenire alla stessa identificazione del fatto», ha una ricaduta sostanziale, che determina l’illegittimità sin dall’inizio del provvedimento, con applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” prevista dall’articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori.
Lo ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza 9544/2025 riguardante un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 e licenziato in assenza di alcuna motivazione contestuale. In sede di reclamo la Corte di merito ha riconosciuto la sola tutela indennitaria, avendo qualificato il recesso datoriale come inefficace in base al comma 6 dell’articolo 18.
In particolare, la Corte di Appello di Firenze non ha dato rilievo alcuno al grave vizio motivazionale che neppure consentiva di appurare e valutare il fatto alla base del licenziamento intimato, ritenendo piuttosto che, «per le ragioni addotte dal datore nel corso del giudizio» (e non contestate dal lavoratore), si trattasse di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con conseguente applicazione del regime dell’inefficacia prevista dal comma 6 «che postula la mancata specificazione dei motivi della causale comunque addotta».
La Corte di cassazione preliminarmente ricorda che, in base all’articolo 2, comma 2, della legge 604/1966, la comunicazione del licenziamento «deve contenere i motivi specifici per cui viene intimato, motivi che vanno esplicitati contestualmente alla comunicazione dell’atto». E ciò al fine di garantire un esercizio consapevole e tempestivo del diritto di difesa da parte del dipendente: infatti in assenza di motivazione, o in presenza di una motivazione talmente generica da impedire la comprensione delle ragioni del recesso, non sarebbe possibile attivare alcun contraddittorio e verrebbe meno anche la possibilità per il giudice di sindacare l’effettiva sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento.
In questi casi, prosegue la Suprema corte, non può trovare applicazione la tutela indennitaria prevista dal comma 6 per un vizio formale minore, ma si impone il riconoscimento della reintegrazione attenuata (con il risarcimento massimo di 12 mensilità) secondo il comma 4, riservata ai casi di insussistenza del fatto, tanto più, viene da aggiungere, in un’ottica sistematica alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 59/2021 e 125/2022, nonché della 128/2024 (sia pure relativa al Jobs act): infatti, se così non fosse, si finirebbe per accordare una tutela più tenue (quella risarcitoria) nell’ipotesi più grave della mancanza originaria di qualsiasi motivazione e quindi di un fatto allegato, e una tutela maggiore (reintegratoria) nell’ipotesi meno grave in cui un fatto sia pur sempre stato addotto, ma la cui insussistenza sia poi stata dimostrata in giudizio, così generando «un’evidente irragionevolezza nella normativa».
Non v’è dubbio che, con questa nuova e importante decisione, l’opera di marginalizzazione della tutela indennitaria a opera della giurisprudenza a favore della reintegrazione quale sanzione pivotale dell’ordinamento ha compiuto un ulteriore passo in avanti.
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