Per la Cassazione una motivazione genuina non esclude una condotta illecita. Il datore deve dimostrare di non avere discriminato il dipendente.
Pubblicato da Il Sole 24 Ore il nuovo articolo di Angelo Zambelli
Non è escluso che il licenziamento assistito da un’accertata e «genuina» motivazione economico-organizzativa possa essere, al contempo, «direttamente o indirettamente discriminatorio». Lo ha affermato la Corte di cassazione, con ordinanza 460 del 9 gennaio 2025, in relazione a una fattispecie in cui una manager, unica dipendente con qualifica dirigenziale appartenente a «una categoria protetta tipizzata, in quanto portatrice di handicap», era stata licenziata per accertata riorganizzazione aziendale e soppressione del suo posto di lavoro.
La Corte di merito, confermando sul punto la sentenza di primo grado, aveva infatti respinto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice. In particolare, secondo la Corte di appello di Roma, il recesso datoriale, di cui la lavoratrice licenziata lamentava il carattere discriminatorio, non poteva qualificarsi come tale in ragione della preclusione rappresentata dalla sussistenza «dell’elemento forte del motivo organizzativo accertato nel giudizio».
La decisione veniva quindi impugnata dalla dirigente dinnanzi alla Cassazione per avere la Corte capitolina – tra l’altro – ritenuto che «l’accertata sussistenza di una motivazione organizzativa del licenziamento preclude ex se la sua natura discriminatoria», nonché per aver gravato «integralmente la ricorrente dell’onere di offrire la prova piena della discriminatorietà del licenziamento».
La Corte di legittimità, dal canto suo, chiarisce preliminarmente le nozioni di discriminazione diretta e indiretta alla luce tanto del diritto interno, quanto di quello euro-unitario. Ciò premesso, prosegue rilevando come i giudici di merito – nel pretermettere ogni indagine circa la discriminazione lamentata dalla ricorrente alla luce dell’esistenza di una ragione di natura organizzativa posta alla base licenziamento – si siano fatti portavoce di una tesi in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, secondo cui, piuttosto, il carattere discriminatorio dell’atto datoriale non può essere aprioristicamente escluso «dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico».
Nel caso di specie, conclude la Corte, le circostanze «idonee a connotare di discriminatorietà» l’intimato licenziamento erano state dedotte dalla ricorrente, essendo di contro il datore a dover provare circostanze inequivocabili volte a escludere la discriminazione. Di qui la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Roma, «che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione di quanto specificato con riferimento al licenziamento discriminatorio ed alla sua nullità […]».
Il principio di diritto espresso dalla Cassazione finisce, quindi, per superare la conformità di entrambe le decisioni di merito relativamente alla legittimità del licenziamento intimato alla ricorrente.
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