Illegittimità del licenziamento in caso di giudizio penale assolutorio

Un nuovo approfondimento sul licenziamento disciplinare a firma di Angelo Zambelli e Giulia Bonadonna è disponibile sulla rivista Modulo24 Contenzioso de Il Sole 24 Ore e Top24 Lavoro.

Illegittimità del licenziamento in caso di giudizio penale assolutorio

La recente pronuncia della Corte di Cassazione (ordinanza 7 settembre 2023, n. 26042) è tornata a ribadire – nell’ambito di una vicenda che coinvolge anche interessanti profili penalistici – il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, in base al quale al datore di lavoro è impedito di intimare un licenziamento sulla base di circostanze ulteriori – e diverse – rispetto a quelle cristallizzate nella lettera di contestazione.

Il caso in esame

Venendo al merito della pronuncia in commento, la Corte di Appello di Torino aveva confermato la sentenza del Tribunale di Alessandria, con la quale era stato annullato, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, il licenziamento disciplinare intimato a un lavoratore (nel caso di specie, addetto all’Ufficio Spedizioni) per i reati di falso e furto di carburante, condotte, queste ultime, emerse a seguito di accertamenti della Guardia di Finanza nonché di successivo procedimento penale.

In particolare, i giudici di merito avevano valorizzato il fatto che il lavoratore licenziato fosse stato assolto, per gli stessi fatti che in sede civile avevano determinato il licenziamento, nel relativo procedimento penale, con formula piena, divenuta definitiva, per non aver commesso il fatto.

La società (d’ora in avanti, anche la “ricorrente”) proponeva, quindi, ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 652 e 654 c.p.p. e dell’art. 7 della Legge 300/1970.

La ricorrente, in particolare, fondava il proprio motivo di ricorso sostenendo, da un lato, l’insussistenza, nel caso di specie, dei requisiti richiesti dalle norme penali in tema di efficacia della sentenza penale nel giudizio civile e, dall’altro, l’omesso esame da parte della Corte di Appello di Torino di taluni fatti, esterni alla lettera di contestazione disciplinare, tali da avere irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario con il lavoratore licenziato.

La Corte di Cassazione, interessata della questione, ha quindi preliminarmente esposto, in sintesi, le osservazioni della Corte di Appello di Torino, la quale, per un verso, aveva ritenuto che l’assoluzione con formula piena del lavoratore licenziato avesse efficacia di giudicato nel giudizio civile vertente sui medesimi fatti; per altro verso, aveva reputato infondate “le doglianze della società in merito a omessi controlli o violazioni di procedure, esterni alla [predetta] contestazione”, ribadendo la necessità che il perimetro dell’addebito disciplinare rimanesse, nel corso di un eventuale successivo giudizio di impugnazione, “cristallizzato nella lettera di contestazione”.

Ebbene, con riguardo all’efficacia nel giudizio civile del giudizio assolutorio penale per i medesimi fatti a base della contestazione e del licenziamento disciplinari, i giudici di legittimità – pur ritenendo “rilevabili gli errori in diritto evidenziati nel ricorso” – hanno affermato che il dispositivo della sentenza impugnata fosse, comunque, “conforme a diritto”. A tale conclusione i giudici di legittimità sono giunti attraverso il richiamo e il puntuale esame di taluni importanti principi, già consolidati nella giurisprudenza di legittimità, in materia di interpretazione dei rapporti tra giudizio penale e civile come risultante dal codice di procedura penale.

Anche con riguardo al secondo ordine di censure la Corte di Cassazione ha ritenuto la sentenza impugnata conforme a diritto e, più precisamente, al principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, e ciò in quanto “l’addebito disciplinare, contenuto nella lettera del 10/2/2017, non formulava contestazioni in merito agli omessi controlli e alla violazione delle procedure, circostanziati solo nelle difese svolte in giudizio”.

Sulla base di quanto sopra dedotto, la Suprema Corte ha quindi confermato quanto già statuito dai giudici di merito rilevando, da un lato, che la sentenza penale di assoluzione fosse idonea a fondare “l’accertamento del giudice del lavoro in ordine all’insussistenza dell’addebito disciplinare a base del licenziamento ed il conseguente annullamento dello stesso” e, dall’altro, che l’allegazione della società “per omesso esame del ruolo e delle funzioni di addetto all’Ufficio Spedizioni del lavoratore, in relazione alla gravità della condotta del lavoratore tale da avere irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario”, costituisse una violazione del sopracitato principio di immutabilità della contestazione.

L’efficacia nel giudizio civile del giudizio assolutorio penale

Relativamente alla violazione e falsa applicazione ad opera dei giudici di merito degli artt. 652 e 654 c.p.p. sollevate dalla società ricorrente, la Corte di Cassazione, come anticipato supra, nel sostenere che “l’assoluzione per non aver commesso il fatto […] fonda l’accertamento del giudice del lavoro in ordine all’insussistenza dell’addebito disciplinare a base del licenziamento”, si è avvalsa dell’ausilio di talune pronunce di legittimità interpretative delle predette norme penali con il cui orientamento la sentenza della Corte di Appello di Torino risultava essere anzi coerente.

Preliminarmente, i giudici di legittimità hanno esaminato il dato letterale delle norme sopracitate che si occupano, appunto, di dettare la disciplina in materia di efficacia vincolante della sentenza penale irrevocabile nell’ambito dei giudizi civili di danno, l’art. 652 c.p.p., e nell’ambito dei giudizi civili non risarcitori, l’art. 654 c.p.p.

In particolare, a norma dell’art. 652 c.p.p. “la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno […]”; allo stesso modo, l’art. 654 c.p.p. attribuisce efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo alla sola “sentenza penale irrevocabile [di condanna o] di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo”.

La specificazione contenuta in entrambe le disposizioni conduce a identificare come produttive di effetti vincolanti in sede extra-penale le sole sentenze penali irrevocabili di assoluzione pronunciate “in seguito a dibattimento”, con l’esclusione, dunque, delle pronunce assolutorie emesse prima del medesimo (ne sono un esempio, tra le altre, le sentenze ex art. 129 c.p.p. emesse in seguito alla richiesta di applicazione della pena ex art. 444, comma 2, c.p.p. o dopo la richiesta di decreto penale di condanna ex art. 459, comma 3, c.p.p., e le sentenze di non luogo a procedere emesse a conclusione dell’udienza preliminare ex art. 425 c.p.p.).

La ratio di tale previsione potrebbe essere rintracciata nel fatto che le sentenze penali assolutorie non dibattimentali vengono adottate in fasi del processo penale non sufficientemente assistite dalle garanzie del contradditorio, risultando, per ciò stesso, inidonee a produrre effetti anche nel giudizio civile o amministrativo.

Ebbene, in virtù di quanto sopra detto, la Suprema Corte ha ritenuto che “le predette norme […] non sono direttamente applicabili alla fattispecie concreta, non trattandosi di giudizio civile promosso dal danneggiato per le restituzioni o il risarcimento del danno, e non essendo stata la sentenza penale di assoluzione […] pronunciata in seguito a dibattimento”.

I giudici di legittimità si sono, però, spinti oltre, rilevando – conformandosi a un orientamento già consolidato e ben riassunto nella richiamata sentenza del 13 settembre 2012, n. 15353 – che, pur in assenza dei requisiti richiesti dalle norme penali e, dunque, “anche ove la sentenza penale irrevocabile sia priva di efficacia extra-penale”, essa costituisce, in ogni caso, “fonte di prova che il giudice civile è tenuto ad esaminare e dalla quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge ([1]).

E ciò, ritiene la Suprema Corte, peraltro in coerenza con quanto ribadito di recente con sentenza del 6 aprile 2023, n. 9507 che, nell’ambito di una fattispecie diversa da quella in commento e con specifico riferimento alle “dichiarazioni scritte provenienti da terzi”, ha ribadito che “nell’ordinamento processuale vigente, manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi prova”, con la conseguenza che “il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico […] con altre risultanze del processo”.

Alla luce di quanto sopra, i giudici di legittimità non hanno potuto far altro che concludere nel senso che “la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, anche in esito a giudizio abbreviato [e, dunque, non dibattimentale, come richiesto dagli artt. 652 e 654 c.p.p.)], è qualificabile come prova atipica dell’insussistenza dell’addebito disciplinare rientrante nel perimetro della parallela imputazione penale”.


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