Licenziamenti nulli e tutela reintegratoria: incostituzionale (anche) l’art. 2, comma 1, del Jobs Act

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Licenziamenti nulli e tutela reintegratoria: incostituzionale (anche) l’art. 2, comma 1, del Jobs Act

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 22 del 2024, è intervenuta, ancora una volta, sul Jobs Act, dichiarandone incostituzionale l’art. 2, comma 1, nella parte in cui circoscriveva l’applicazione della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità del licenziamento “espressamente previsti dalla legge” .


La massima 

L’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 – ai sensi del quale il datore di lavoro è tenuto a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro in caso di “nullità del licenziamento perché discriminatorio […], ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” – è costituzionalmente illegittimo limitatamente alla parola “espressamente”, con la conseguenza che il regime del licenziamento nullo è lo stesso sia nel caso in cui la disposizione imperativa violata contenga anche l’espressa – e testuale – sanzione della nullità, sia nel caso in cui la nullità non sia espressamente prevista come sanzione per la violazione del precetto primario.

Corte Costituzionale 22 febbraio 2024, n. 22


Premessa

Non è la prima volta che la Corte costituzionale interviene sul Jobs Act – e, dunque, in altri termini, sulle scelte politiche operate nel 2015 – con pronunce, in tutti i casi, di elevato impatto sociale.
È del 2018 la sentenza n. 194 con cui la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità del meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta per i licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevedeva un rigido automatismo nella
liquidazione dell’indennità spettante al lavoratore fondato sul solo parametro dell’anzianità di servizio.
In linea di continuità con tale pronuncia, nel 2020, con la sentenza n. 150, è stato altresì dichiarato incostituzionale l’art. 4, D.Lgs. n. 23/2015 sull’indennità risarcitoria legata ai vizi formali o procedurali del licenziamento, ancorata anch’essa in via esclusiva all’anzianità di servizio, e ritenuta “contrastante con i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza e con la tutela del lavoro in tutte le sue forme” [1].
Il sistema delle tutele economiche disegnato dal Jobs Act si è visto dunque – per effetto dei citati interventi della Consulta e a soli cinque anni dalla sua entrata in vigore – completamente sovvertito.
Da ultimo, appena un mese fa, la Corte costituzionale è nuovamente intervenuta sul D.Lgs. n. 23/2015, questa volta in materia di licenziamenti collettivi e, pur nell’occasione confermatane la legittimità, ha ribadito la necessità che il legislatore operi una revisione generale della materia dei licenziamenti, allo stato di “complessa
e complessiva articolazione” [2] in quanto frutto di interventi normativi stratificati.
Senonché una tale necessità è rimasta finora inavvertita dal Parlamento, con la conseguenza che il potere giudiziario non poteva che continuare a supplire alle carenze di quanto “prodotto” dal potere legislativo..

Il caso

È in questo contesto di plurimi interventi di riscrittura del D.Lgs. n. 23/2015 che si inserisce la sentenza n. 22 del 2024 con cui la Corte costituzionale si è pronunciata, questa volta, sulla questione di legittimità dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 – nella parte in cui circoscriveva l’applicazione della tutela reintegratoria ai casi di
nullità del licenziamento “espressamente previsti dalla legge” – sollevata dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 9530 del 7 aprile 2023.
In particolare, i Supremi giudici avevano preso le mosse dall’impugnazione della sentenza con cui la Corte di appello di Firenze, rilevata la nullità della destituzione di un dipendente autoferrotranviario per violazione della normativa di categoria, aveva allo stesso accordato la sola tutela indennitaria in ragione del fatto che (i) l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 “prevede la reintegrazione del lavoratore limitatamente ai casi di licenziamento discriminatorio ovvero perché “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” e che (ii) nel caso di specie “andava esclusa la discriminatorietà e la nullità non era espressa” [3]..


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