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Datore offeso su Facebook, no al licenziamento se lo sfogo è per fatto ingiusto

Per la Cassazione il giudice civile ha correttamente valutato la causa di non punibilità della provocazione di cui all’articolo 599 del Codice penale

 

È illegittimo il licenziamento intimato a una lavoratrice a causa della pubblicazione, sul suo profilo Facebook, di frasi offensive della reputazione e dell’immagine della società datrice di lavoro, ove queste siano qualificabili come uno «sfogo» determinato da un «fatto ingiusto» ascrivibile alla società stessa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con ordinanza 26446/2024 del 10 ottobre scorso, in relazione a una fattispecie in cui una dipendente era stata licenziata per giusta causa per aver postato su Facebook – dopo la fuoriuscita di sostanze tossiche nei locali aziendali in cui era rimasto infortunato il marito, anch’egli dipendente della società – affermazioni diffamatorie nei confronti del datore di lavoro e dei vertici aziendali.

La Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, aveva annullato il licenziamento, con ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, ritenendo che, nel caso di specie, fosse applicabile la causa di non punibilità della provocazione di cui all’articolo 599 del Codice penale. In particolare, secondo la Corte di appello di Firenze, i fatti oggetto dell’addebito, pur avendo rilievo disciplinare, erano stati commessi «nello stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso», condizione, questa, idonea a escludere la punibilità della lavoratrice e la legittimità della sanzione irrogata.

La decisione veniva quindi impugnata dalla società datrice di lavoro dinnanzi alla Cassazione, per avere la Corte di merito «erroneamente […] ritenuto che non costituisse delitto la condotta gravemente denigratoria» tenuta dalla dipendente, sulla base – secondo la ricorrente – di un’interpretazione erronea dell’articolo 599 del Codice penale, che certamente, esclude la punibilità del reato «ma non anche la natura di illecito civile del fatto», dovendo, piuttosto, la valutazione di un atto disciplinarmente rilevante «rivestire autonomia rispetto ai profili penalistici».

La Corte di cassazione chiarisce preliminarmente che, in casi come quello de quo, l’accertamento del giudice civile «deve essere condotto secondo la legge penale», e deve avere ad oggetto «l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi». Ciò premesso – prosegue la Corte di legittimità – i giudici di merito, svolgendo correttamente un accertamento non solo circa la «non punibilità del fatto, costituente reato doloso», ma anche circa la «problematica se la condotta potesse essere comunque rilevante ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento», hanno considerato rilevanti «sul piano del rapporto di lavoro, ai fini della valutazione della non gravità del fatto» gli stessi fatti che, sul piano penalistico, «sono stati ritenuti idonei ad escludere la esistenza di un delitto».

Tale iter seguito dalla Corte di appello di Firenze è – conclude la Cassazione – assolutamente condivisile, essendo la condotta della lavoratrice ascrivibile a «uno sfogo legato alla particolare emotività determinata da un accadimento contingente» e ritenuto di responsabilità della datrice di lavoro.

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