Il legislatore ribadisce: motivi del recesso in forma scritta. Angelo Zambelli su Il Sole 24 Ore

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Approfondimento di Angelo Zambelli per I Focus de Il Sole 24 Ore

28 luglio 2022

 

Il legislatore ribadisce: motivi del recesso in forma scritta

La norma concede al datore sette giorni di tempo ed estende le tutele dei subordinati ai prestatori con contratti «non standard»

L’ articolo 14 del decreto legislativo Trasparenza (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 29 luglio 2022), recependo quanto previsto all’ articolo 18 della direttiva Ue 2019/1152, dispone che è vietato estromettere il lavoratore per aver esercitato le prerogative contenute nel decreto medesimo e che egli ha il diritto di richiedere al datore di lavoro (ovvero al committente) i motivi che hanno determinato la cessazione del rapporto: norma, questa, che potrebbe risultare di dubbia utilità, visti gli elevati standard di protezione che il nostro ordinamento già accorda ai dipendenti.

Armonizzazione complicata e in effetti, sin da una prima lettura del testo, emergono alcune singolarità che derivano da un’ opera di trasposizione quasi letterale della norma europea nel nostro diritto interno, con le difficoltà dovute al fatto che la direttiva si propone, da un lato, di armonizzare ordinamenti nazionali anche molto distanti tra loro e, dall’altro, di estendere le tutele tipiche dei subordinati ai prestatori di lavoro impiegati «con tipologie contrattuali non standard».

In primo luogo, la norma prevede la possibilità di richiedere i motivi del provvedimento espulsivo, che il datore deve fornire per iscritto al lavoratore entro sette giorni dalla richiesta.

A tal proposito, è appena il caso di ricordare che per i rapporti di lavoro subordinato, a partire dalla riforma Fornero, l’ articolo 2 della legge 604/1966 ha previsto che la comunicazione del licenziamento deve specificare contestualmente i motivi che lo hanno determinato.

Alla luce di ciò, sembra quindi che gli unici beneficiari di questo “nuovo” diritto saranno i soli prestatori impiegati con contratti “non standard” (così definiti nella relazione illustrativa allo schema del decreto, ad esempio, co.co.co. o prestazioni occasionali), posto che la mancata specificazione dei motivi del recesso costituisce, in caso di contratto di lavoro subordinato, un vizio formale del licenziamento.

Licenziamento ritorsivo

Quanto alla fattispecie del licenziamento cosiddetto ritorsivo, questa ipotesi di recesso illegittimo non è del tutto nuova al nostro ordinamento che, pur in assenza di una espressa previsione normativa, vanta una consolidata disciplina di matrice giurisprudenziale.

È infatti principio di diritto che, nell’ ambito del lavoro subordinato, il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta – assimilabile a quello discriminatorio – costituisce l’ ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, con conseguente nullità del licenziamento, purché il motivo ritorsivo sia stato l’ unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche mediante presunzioni (fra le ultime, Cassazione 11705/2020).

Anche di recente la Corte di legittimità è intervenuta confermando che, in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto in base all’ articolo 1345 del Codice civile deve essere determinante, cioè costituire l’ unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale (Cassazione 15218/2022). Stando così le cose, occorre in primo luogo verificare la sussistenza delle ragioni formali addotte poste a base del recesso datoriale. Una volta verificata l’ effettiva sussistenza della causale, perde ogni rilevanza l’ accertamento della sussistenza e della decisività dell’ eventuale motivo ritorsivo di licenziamento, la cui prova resta comunque a carico del lavoratore.

Sennonché, il nuovo decreto sembra prevedere una sostanziale inversione dell’onere probatorio: il lavoratore non deve più provare l’esistenza dell’ intento ritorsivo datoriale, bensì sarà il datore a dover provare la sua insussistenza, posto che su di lui incombe comunque l’ onere di provare la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento.

Ci si domanda innanzitutto come potrà operare la prova della insussistenza dell’ intento ritorsivo prevista dal nuovo decreto e se per escludere la fattispecie del licenziamento ritorsivo sarà sufficiente provare la sussistenza dei motivi formalmente addotti. Viene inoltre da chiedersi cosa accade se, pur sussistendo le ragioni formalmente addotte a base del licenziamento, ci siano elementi per ritenere che il provvedimento del datore sia pur sempre collegato alla condotta legittima del dipendente: si pensi al caso in cui l’ eventuale motivo illecito non sia né determinante, né esclusivo.

Ulteriore elemento di incertezza riguarda il suo ambito applicativo. Dal tenore letterale della norma, infatti, sembra che le regole sul licenziamento ritorsivo, in base all’ articolo 14, si applichino solo alle ipotesi in cui il lavoratore lamenti la violazione dei diritti di informazione e trasparenza contenuti nel decreto legislativo sulla trasparenza, nulla stabilendo in ordine a tutte le altre ipotesi di ritorsione che possono riguardare l’ esercizio di diritti ulteriori e diversi.

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